Direzione Giardini Margherita (Italia, 2018)

Regia, soggetto e montaggio: Maria Antonietta Caparra.
Produzione: Creusarte. Durata: 46′
 
Questa è una storia come tante…” recita la voce narrante all’inizio del documentario.
E in effetti è una storia comune e autentica di un gruppo di persone che si incontra per giocare a calcio, ogni pomeriggio, al parco pubblico dei “Giardini Margherita” a Bologna.
Si tratta di persone di età diversa, adulti e ragazzi con percorsi umani diversi, diverse professioni, diverse estrazioni sociali, diverse origini geografiche che quasi senza accorgersene, attraverso un appuntamento diventato ormai decennale, si sono ritagliate uno spazio comune, fisico e non solo, a misura ognuno della propria disponibilità e abilità, ognuno con i propri mezzi e il proprio talento, condividendo ognuno quell’unica grande passione che è il pallone e il piacere di praticarlo all’aperto e insieme agli altri.
Il momento della partita, quasi tutti i pomeriggi da primavera ad autunno, e il luogo, il parco pubblico più grande e importante della città, sono diventate le coordinate di una esperienza di aggregazione che col tempo ha preso vita – via via acquisendo nel tempo caratteristiche riconoscibili, codificando regole non scritte condivise, esprimendo valori, maturando una propria identità – come un gruppo vero e proprio, coerente e con una precisa vocazione.
Poste queste condizioni, tema centrale e quasi protagonista astratto dell’intero documentario risulta essere l’integrazione, fra persone non solo provenienti da diverse parti d’Italia ma anche di diverse etnie, religioni e culture che nel gruppo non si manifesta mai come diretta conseguenza di una presa di posizione sociale o politica ma come espressione di un punto di vista inevitabilmente più trasversale e per così dire naturale e genuino e cioè il giudizio sul campo del proprio valore come calciatori e solo successivamente, sulla base di questo, come persone. Altrettanto arbitrario forse. Probabilmente infantile. Ma proprio per questo capace di azzerare miracolosamente ogni differenza di altro carattere legato al colore della pelle, al conto in banca, all’aspetto fisico.
ll racconto di tutto questo si  snoda attraverso le testimonianze di alcuni dei principali componenti del gruppo i quali ognuno a suo modo descrivono la propria esperienza, esempi concreti di tutti i temi trattati fin qui. E con aneddoti, opinioni e ricordi che come tante piccole tessere di un puzzle ricompongono – lungo una linea del tempo segnata anche da alti e bassi, partenze, ritorni, nuovi arrivi, momenti di  assenza e latitanza dal campo – un quadro che per tutti poi in un modo o nell’altro è sempre stato ed è lo stesso e fatto di quei valori di amicizia, tolleranza, reciproco rispetto e amore per il pallone che è il collante che negli anni ha creato e poi mantenuto vivo lo spirito che li accomuna da sempre. Non è un caso che tutto questo avvenga a Bologna con la sua dimensione universitaria e multietnica e che figura chiave del gruppo, come emerge pian piano dalle interviste, si riveli un certo Corrado, simbolo e incarnazione di quell’entusiasmo e passione per il gioco del calcio – nell’accezione più pura e amatoriale del termine – che ha permesso al gruppo, da un certo momento in poi, di ritrovare uno spirito che sembrava smarrito e ridefinirsi ancora più forte. 

…su “Believe Not Belong”

Vittorio de Angelis double trio con Believe Not Belong, il jazz infinito, credere in tutto ma non appartenere a nessuno- di Francesco Cataldo Verrino

-Francesco Cataldo Verrino su www.ventuno.com –

Sin dalle prime note “Believe not belong“ di Vittorio De Angelis  colpisce per la potenza del suono, corposo e ricco di sfumature.  In verità l’album ha struttura ossea e musicale non comune, essendo stato realizzato con un doppio line-up, si parla di un doppio trio. Il sassofonista è accompagnato da due batterie, due tastiere, due fiati, mentre il basso viene suonato dai due tastieristi: uno al basso sinth e l’altro al piano basso Rhodes; si tratta di due piccole formazioni indipendenti, denominate double trio, che però suonano insieme. Nello specifico: alle tastiere e piano Domenico Sanna e Seby Burgio, alla tromba Francesco Fratini e Takuya Kuroda, alle due batterie Massimo Di Cristofaro e Roberto Giaquinto che si alterna con Federico Scettri ed infine, su due soli brani, al basso Aldo Capasso. Ogni elemento del double trio vanta una lusinghiera storia professionale nell’ambito del jazz, talvolta con  rilevanti collaborazioni internazionali. Questa scelta ha rafforzato notevolmente il sound di De Angelis, ma anche la sua convinzione di una una musica multiforme e stratificata, un jazz attualissimo, giocato su una linea sottile che lega ed amalgama soul, funk, jazz, suggestioni afro-beat e tendenze metropolitane, tutti accomunati da una matrice manifestamente “black” e afro-americana”. Vittorio De Angelis è un talentuoso sassofonista e flautista napoletano, di stanza Roma, con studi accademici e regolari, ma soprattutto una lunga gavetta che ne ha forgiato la tempra e lo stile: il timbro del suo sax richiama alla mente i grandi del passato come Sonny Rollins e Don Byas, così come molte atmosfere del disco riportano alla mente le gesta eroiche di Art Blakey & Jazz Messengers in epoca hard-bop, il soul jazz di Donald Byrd e di Horace Silver. Non mancano suggestioni più moderne ed attuali che rimandano a Kamasi Washington, del quale De Angelis dice: “E’ la mia più recente influenza e da lui ho preso l’idea di usare due batterie contemporaneamente per rinforzare il groove”. Nel complesso l’album è una sorta di sequenza narrativa spazio-temporale che lega  passato e presente, dove l’attualità dei suoni si fonde mirabilmente, a tratti cede al passo, a suggestive ed immaginifiche soluzioni melodico-armoniche provenienti dalla tradizione e dall’archivio della memoria storica del jazz degli anni ’50 e ’60, ma senza fare citazionismo spicciolo o mero esercizio calligrafico, piuttosto  si percepisce una sapiente rimodulazione di vari metalinguaggi sonori, attraverso una vena compositiva fertile e prolifica, accompagnata da una tecnica espositiva a tariffa prestazionale elevata. Alquanto attrattivo l’andamento dei fiati che, quasi in sinergia, forgiano il suono dell’album, sostenuti da un impianto ritmico deciso e flessibile. L’opener “Black Rain“, ci fa pensare immediatamente al “Colossus” con il sax che inonda immediatamente la scena con voce profonda e stentorea. Quasi un richiamo al popolo del jazz, dapprima parcellizzato in tanti riff, fino a dipanarsi in un eloquente racconto metropolitano, puntellato da una retroguardia ritmica che diventa una sorta di indicatore e di navigatore satellitare. Solo l’inizio varrebbe il prezzo della corsa, ma l’avventura è appena iniziata, la seconda pietanza ad essere servita è impregnata di autentico soul-jazz, “Roy’s mood”, dedicato a Roy Hargrove  ed impiantato su un substrato melodico a presa rapida, è capace di far vibrare le corde della nostalgia e della pathos grazie al perforante assolo del trombettista Takuya Kuroda. E’ possibile riscontrare la tipica  struttura bop: tema inizia annunciato da tromba e sax con il supporto di un compatta retrovia ed una sequenza di assoli in alternanza da parte degli strumenti di prima linea. “Step Out” è decisamente più funkoide e si sostanzia attraverso una scansione ritmica  più nevrotica e arrembante con qualche concessione all’approccio melodico. “Strike” trasporta il fruitore in un’altra dimensione, dall’atmosfera più intima e introspettiva, su cui si staglia nuovamente l’evocativo soffio di Takuya Kuroda. “Afrorism” si caratterizza per un calibrato tocco jazz dall’intreccio afro-centrico. In ogni traccia c’è un elemento sorpresa da scoprire che si racconta attraverso un proprio linguaggio musicale, offrendo un punto focale su cui concentrarsi come, ad esempio, il piacevole e disimpegnato “Second” dal cuore latino, che ammalia l’ascoltatore con il lime dei Caraibi ed  uno scalpellante andamento sincopato. A suggello “Well”, dall’aura cinematografica, adatto al commento di un vecchio film in bianco e nero, popolato da sagome fumettistiche, con intrecci amorosi, intrighi politici, spionaggio e storie urbane.“Believe Not Belong” di Vittorio De Angelis Double Trio, pubblicato da Creusarte Records,  è un album trenta e lode, collocabile in un’epoca e in una sfera musicale non definibile, soprattutto in dimensione spaziale non circoscrivibile, ma dai tratti somatici marcatamente  internazionali. Il titolo è emblematico, come dire “credere” in tutto, ma non “appartenere” a nessuno. L’intero disco è sorretto e pervaso da un sound spettacolare, da ritmo equilibrato e serrato al contempo,  che non lascia al fruitore vuoti d’aria per una benché minima distrazione, coinvolgente e totalizzante in una sorta di dimensione espansa ed olistica di jazz contemporaneo di alta scuola.

 

BELIEVE NOT BELONG – Vittorio de Angelis ‘DoubeTrio’


Disponibile dall’ 8 marzo 2020 il CD “Believe not belong” di Vittorio De Angelis

”Lungo una linea sottile tra suol, funk e jazz il suono di questa formazione sembra non accorgersi delle influenze che sfiora e tocca, nella immediatezza e fisicità di fondo che mantiene. Come non sapesse, mentre accade e se ne nutre, di attraversare una terra di confine e scambi, inevitabilmente ricca di stimoli.E pur tirando dritto fieramente per una sua strada maestra, alla fine del viaggio, dentro una evidente contaminazione, non può fare a meno di riconoscere come qualcosa che ha raccolto per strada e non ha messo in valigia fin dall’inizio, le suggestioni e i riferimenti ad esempio a Kamasy Washington (nella traccia Black Rain), a Soweto Kinch (nella traccia Step out) a l’afrobeat di Fela Kuti (nella traccia Afrorism) o l’omaggio dichiarato a Roy Hargrove (nella traccia Roy’s mood per l’occasione suonata insieme a Takuya Kuroda). Più che di una retta quindi, quella linea sottile, potremmo dire si tratti di una parallela. Tante parallele. Ognuna nella sua direzione. Ma che attraverso una naturale maestria nel mettere insieme linguaggi musicali diversi (solo in apparenza ovviamente) crea livelli ritmici e armonici diversi che convivono nello stesso momento. E tutto si compone da sé, restando dov’è. E’ questo il senso e la definizione dello stile eclettico del lavoro che propone Vittorio De Angelis, sassofonista e allievo di Steve Grossman durante il suo periodo bolognese. La formazione di cui fa parte è definita “double trio” e gioca sulla dualità: due batterie, due tastiere, due fiati. Assente il bassista su quasi tutti i brani. In quel ruolo si alternano i due tastieristi: Domenico Sanna al basso sinth e Sebi Burgio al piano basso Rhodes, il leggendario e storico strumento usato da Ray Manzarek dei Doors. Si tratta dunque, a estrema sintesi del discorso sulle particolari sonorità di questa formazione, di due trio indipendenti che però suonano insieme.”

Corrado Catenacci (arte sound)

Acquista su Bandcamp

Gerlando Gatto su ”Online jazz ” – I nostri CD 21/Mar/2020 http://www.online-jazz.net/2020/03/21/i-nostri-cd-76/?fbclid=IwAR2KR6BOa_kCvjrf4tsPPFrZOkxpuAEa6REzCvMM_EuxBBizn6NALI7XCrM

Amedeo Furfaro – Corriere del Sud  01/Aprile/2020 http://www.corrieredelsud.it/nsite/societa-e-costume/29715-sax-and-the-cities-da-giuliani-a-casarano-da-de-angelis-a-vigliar.html?fbclid=IwAR28TWdqvT04vGMl1e6nQJuEok1gCz54TQAiT0IZoMiTQqDC8pKTerQyYRM

..ascoltando ”Jazz ballads from Napoli” di Francesco Marziani.

solopianoStiamo riascoltando con calma il cd… nell’atmosfera adatta di una domenica pomeriggio a casa in salotto… ricco di sfumature anche se allo stesso tempo essenziale… come i sentimenti che sono quello che sono a prescindere dal racconto che se ne può fare e solo l’eccesso di parole spesso li riempie di curve e iperboli che nulla dicono in più. Ecco senza eccessi ma con un vestito elegantissimo ho riconosciuto alcuni fraseggi come se quella improvvisa familiarità avesse a che fare con cose della mia vita e questa sensazione di intimità la giustificasse.. accorgendomi solo dopo che invece semplicemente erano le melodie note, che a tratti riaffiorano, di quei classici reinterpretati. Che poi non meno di altre cose quelle melodie così popolari appartengono anche loro alla sfera privata delle nostre emozioni. Quindi il senso del discorso non cambia…

Corrado Catenacci  – Artesound